Piergiorgio Pozzobon, Presentazione di Cos’hai che non parli…?, Edizioni Ensemble ’900, Treviso.
Nella produzione poetica di Francesco Crosato si possono individuare sostanzialmente due nuclei tematici: il filone memoriale (legato all’infanzia) e il filone amoroso. Tali nuclei vengono sviluppati dall’autore ricorrendo ad un linguaggio colloquiale che, volutamente alieno dal ricorso a tecniche retoriche elaborate o sofisticate (l’unica indulgenza è talora per allitterazioni ed assonanze), si modula su un duplice registro stilistico: il registro serio (con accenti intimistico-crepuscolari) e il registro ironico.
Si tratta di registri talvolta compresenti nello stesso componimento, più spesso distinti ma sempre complementari, in quanto si presuppongono a vicenda, rappresentando due modi diversi, entrambi necessari, di porsi di fronte alla realtà.
Il primo interpreta la difficolta dell’autore di fare esperienza positiva di sé, bloccato da un lato dall’impossibilità di una piena decifrazione del reale, dall’altro da un’estenuante oscillazione della volontà di fronte alle scelte di vita; il secondo rappresenta lo scarto salvatore del distanziamento ironico e autoironico, l’unico capace di esorcizzare conclusioni troppo amare e di rilanciare il gioco dei dadi nella speranza che i conti, per qualche misterioso sortilegio, prima o poi tornino: si tratta, dunque, in questo caso non di un gioco gratuito della penna, ma di un meccanismo psico-poetico che va ricondotto alla dimensione dell’impegno.
Anche se complementari, e dunque necessari entrambi, ritengo che i testi più convincenti siano quelli in cui prevale il secondo registro, quelli cioè che – nei vari settori – su un’emozione o una riflessione legata al vissuto quotidiano gettano il guizzo di uno scarto logico, una sterzata improvvisa del senso; obbligato all’arresto della sorpresa, il lettore viene indotto al riso (o al sorriso) come espressione dello smarrimento “divertito” (nel senso di ‘distolto da’) del pensiero.
È in questa prospettiva che, a mio avviso, risulta illuminante un brevissimo testo che l’autore ha voluto intitolare Dedica, facendone il componimento proemiale della raccolta. In esso, in una delicata sintesi che fotografa l’uomo nell’intero arco della sua esistenza, sconfitta e ironia salvifica si stringono insieme, consentendo alla vita di durare:
Dedica
a chi
da piccolo confondeva
il Murano dei vetri col
Burano dei merletti e
da grande
on con off
Il testo sembra sviluppare una sorta di poetica, una specie di guida all’interpretazione. Poche parole in veste (Crosato direbbe in “sottoveste”) di poesia, un protagonista (il poeta) colto nei due momenti essenziali della sua esistenza (fanciullezza-età adulta), prima e poi ugualmente disorientato di fronte alla realtà e alla vita. Il fatto, però, non lo angoscia, visto che il reale ha in sé la leggerezza e la levità del gioco. Non c’è dramma in questo dramma. L’adulto ride del fanciullo e ride di sé. E ride del suo riso.
La poesia di Crosato legata al tema dell’infanzia presenta spesso questa dualità dialettica: l’io adulto che dialoga con l’io fanciullo. Nelle poesie che apprezzo di più non si tratta però, come potrebbe sembrare, di un nostalgico ripiegarsi su ciò che era e che adesso si è dissolto, ma di un’affettuosa azione demistificatoria del passato, realizzata attraverso un’ironia bonaria e scanzonata. Il mito dell’infanzia, lungi dall’essere celebrato, si sgonfia, afflosciandosi in caricatura sulle pieghe del tempo.
Questo può avvenire perché l’adulto non è altro che il bambino cresciuto, che si porta dietro la solita incantata afasia di fronte al groviglio della vita, la sua consueta dislessia esistenziale, in cui il canto non corrisponde quasi mai alle note segnate sullo spartito, né il gesto all’intenzione che lo aveva ispirato.
Questa vocazione all’ironia si esprime spesso – per una esigenza interna – nella forma dell’epigramma e del calembour. A volte più che di vere e proprie poesie si tratta di scherzi del pensiero o della lingua (si vedano, ad esempio, Peccato, Ricordi di scuola, Confessione, Prima Comunione…).
A caratterizzare questi testi non è tanto una particolare ricerca espressiva che, semmai, tende a muoversi – a volte con esiti di fresca immediatezza – sui binari ormai tradizionali della poesia visivo-sonora, come accade ad esempio nel componimento Alla fiera di Mastro Andrè, quanto invece una colloquialità senza filtri letterari che, inducendoci all’identificazione con l’autore, ci coinvolge non di rado nel gioco – liberatorio – della riflessione autocritica.
L’humor di Crosato trova espressione, comunque, anche in liriche di più ampio respiro, dove il pensiero-emozione non viene stillato a gocce o concentrato in pillole, ma si articola in strutture composite con maggiori ambizioni espressive. Si veda ad esempio uno dei testi più felici della raccolta, Passavamo i giorni a far aste…, nel quale l”adulto” assume i panni del maestro elementare (professione svolta dall’autore per parecchi anni) che traccia un bilancio, divertito e insieme preoccupato, del metodo didattico basato sulla “percezione globale”, messo a confronto con i metodi d’insegnamento tradizionali. Vi fermenta un rimpianto – emotivo più che razionalmente restaurativo – per una scuola della gradualità e dei tempi lenti, una scuola nella quale l’approccio alla scrittura da parte del bambino aveva i ritmi e le cadenze di una liturgia favolosa, come fosse un rituale iniziatico per accedere a un mondo di misteriosa felicità. E il messale di questa liturgia era – chi non lo ricorda? – il quaderno dalla copertina nera e dal bordo rosso, sui cui fogli con pennini spesso “schincati” il bambino tracciava incerto i suoi segnali d’aste per una comunicazione della fantasia.
Il bersaglio dell’ironia non è sempre, per una sorta di narcisistico vittimismo, l’“io” del poeta (del resto mai assente dallo sfondo), ma anche il mondo circostante o addirittura la poesia “alta” che viene investita da una irriverente quanto bonaria operazione di sgonfiamento. È il caso – anche se con una rivisitazione non del tutto nuova – di Piove in città o, in “variatio” campagnola, di Quel verde…, dove il tema della natura sotto la pioggia viene felicemente attraversato dal duetto campagnolo nonna-nipote, ritmato in controcanto dal ritornello “Piove, nona, piove…! “.
Accanto alle liriche ironiche, figurano – come s’è detto – anche poesie più “intonate”, in cui il tema stesso [il ricordo affettuoso dei nonni (si veda ad es. Di te ricordo…, o A letto nel buio), l’umbratile freschezza della campagna (si legga Nella nebbia) o il mondo dei campi associato ai riti religiosi (bella a tale proposito Lucciole devote ai fioretti di maggio)] esige timbri e toni di maggiore compostezza.
Neppure in questo ambito, comunque, manca lo scherzo.
Anzi è proprio la figura della nonna che suggerisce a Crosato l’unica poesia finora composta in dialetto (El mondo int’el mastèl), un lungo componimento in cui il tessuto linguistico viene piegato nelle sue corpose sonorità a produrre effetti ritmici ed espressivi addirittura comici.
Anche il tema affettivo-amoroso vede l’alternanza dei due moduli espressivi, serio e dissacratorio, che caratterizzano la poesia dell’infanzia. Qui, però, essendo troppo esile ancora il filtro della memoria, si fanno più marcate le tinte sia dei sentimenti, forti e intensi nella loro insistente conflittualità, sia della demistificazione che diventa più graffiante e, talvolta, crudele.
È chiaro, tuttavia, che, pur partendo da un dato autobiografico, la poesia amorosa di Crosato tende al paradigma, e cioè a farsi voce di una tipologia – quella del dissidio – che, tra ricerca e rifiuto, è parte non piccola della psicologia del desiderio.
L’esperienza d’amore del poeta sembra nascere, e naufragare, in un contesto di vita caratterizzato da un rapporto problematico con le donne, spesso sentite lontane dal proprio orizzonte d’attesa, o al di sotto o al di fuori delle proprie aspettative. Di qui da un lato la difficoltà di scelta e l’incertezza sui passi da fare nella fase d’approccio, dall’altro la demitizzazione della donna e dell’amore per esorcizzare sconfitte e sofferenze.
Questi temi vengono affrontati da Crosato con cinismo corrosivo in brevissime liriche che sovente – come è tipico degli epigrammi – fanno scattare nell’ultimo verso un riso liberatorio (è la sezione intitolata Quando…). Vengono cosi fotografate alcune situazioni di un itinerario della “perplessità” amorosa: dalle timide “avances” di un cacciatore che si scopre cacciato (Quando una figlia resta al palo), all’esitazione di fronte a una ragazza interessante ma lievemente “difettata” (Quando stai valutando…), alla telefonata decisa fuori tempo massimo, dopo mesi di rinvii, quando la fanciulla prescelta si è ormai accasa (Quando hai finalmente deciso). L’amante in potenza, cosi, resta sempre bloccato dall’imbarazzo della scelta, nella consapevolezza dolceamara che, se vivere è tenersi aperte molte possibilità, la sua è la migliore delle vite (im)possibili (Quando è giunta l’ora di un bilancio).
Lo sguardo impietoso su di sé non impedisce all’autore di togliere i veli anche all’immagine idealizzata di donna consegnataci dalla tradizione letteraria o consacrata oggi dai media, colpendo basso, molto basso, sempre con aria ludica, non senza una punta di rimpianto per un sogno d’altri tempi (fortemente anticonvenzionale in questa direzione è l’epigramma Quando l’amore diventa realtà). Su questa linea di sapidità corrosiva si collocano anche alcuni guizzi fulminei del Dizionario in poesia, che, pur non sempre legati direttamente al tema amoroso, contribuiscono tuttavia a completare 1’atmosfera di indolente irresolutezza che aleggia su tanta parte del Crosato “ludens” (si vedano, ad esempio, moralità e in particolare narcisismo e volontà). Il piccolo capolavoro di questa sezione e, a mio avviso, fedeltà, testo nel quale l’ironia si fa più poeticamente intensa per l’ambiguità che le consente di colpire a tutto campo, presentandoci una partner in ogni caso colpevole, o perché infedele o perché con la sua fedeltà non fornisce all’uomo il desiderato alibi per tradirla.
La problematica amorosa, tuttavia, non si risolve in Crosato nel gioco della demistificazione distruttiva. Proprio perché esorcizzato, quando l’amore si fa realtà, inebria e trasforma. Il riso allora sparisce dal volto del poeta e subentrano, nella felicità raggiunta, le atmosfere dolci di separatezza fisica e tonale dal mondo (la parola “buio” che spesso ricorre nei testi sembra suggerire, in chiave psicanalitica, una regressione in spazi protetti e rassicuranti; si vedano, ad esempio, È così piccolo l’universo, Vorrei uccidere…, Fuori piove…).
Sono atmosfere, però, destinate a non durare. All’idillio subentra ben presto la crisi: quasi per una necessità interna l’amore si dissolve, svaporando in una lontananza dalla quale, tuttavia, il poeta si volge di continuo alla sua donna con trepida nostalgia. Ma non è una poesia malinconica o sentimentale. A salvare Crosato dal rischio del luogo comune o del vittimismo è ancora una volta la contaminazione fra pianto e riso, tra serietà e ironia, tra il protendersi “verso” e il trattenersi “da”: si definisce così una sorta di staticità dinamica, risolta in toni colloquiali di leggerezza narrativa.
Per questo amore Crosato si affida anche a memorie letterarie – richiamate dal titolo della sezione Per Clodia – che gli consentono con delicata discrezione di evocare attorno al suo piccolo mondo di affetti anche quello, grande, della poesia amorosa del passato, a suggerire una continuità ideale (si veda in particolare scellerata!).
Nascono cosi, ad esempio, liriche come gli amici mi ripetono e da troppo tempo, oppure, con fresca levità, componimenti sbarazzini come il tuo culetto e sono misogino. Il poeta evoca la donna in mezzo agli oggetti della quotidianità domestica, determinando un impasto dissonante di cose inerti e di dolcissime emozioni memoriali. Si va dai bricchi di caffè (il tuo culetto) all’automobile (da troppo tempo), dal vaso di fiori (vorrei trovarti…) al telefono (… anche a Ischia e a Capri), dalla radio (per radio) alla bolletta del gas (rientrato da due tre giorni di ferie).
Tra questi simboli della vita sempre uguale si muove leggero il fantasma della donna, sentita come l’unica essenza – e dunque necessaria anche se inafferrabile – capace di far lievitare la “pesantezza” dell’esistere.
Pur apprezzando numerose poesie del registro serio di Crosato, trovo complessivamente che i contributi più originali egli li abbia dati nell’ambito della produzione epigrammatica ed ironica. È sempre una luce carnevalesca (con luminescenze talvolta crepuscolari) quella del Crosato che mi piace, mai fredda, mai cupa e angosciosa. Se il mondo, anche adulto, nonostante tutti gli sforzi per dargli un’apparenza di serietà continua ad essere un “mondo alla riversa”, l’autore non sembra preoccuparsene troppo. Le lampadine della sua poesia (vedi Lampade e lampadine) frugano in ogni angolo dell’esistenza con guizzi rodariani ad alimentare un sogno fragile ma tenace.
Carlo Rao (1995)
Cos’hai che non parli…? è una raccolta fresca, “gradevole”, non priva di stupore affabulante: originale il gusto della memorialità ironica, morbida la scansione del viaggio (quasi un ri/percorso dell’iniziazione), convincente e saggiamente equilibrata la molteplicità dei codici (notevole la sezione di poesia visualgrafica “Alla fiera di Mastro Andrè”).
Ma anche gli ammiccamenti a Palazzeschi (e le accumulazioni verticali di certa atmosfera crepuscolare) hanno respiro autonomo e controllo timbrico.
Le due sezioni conclusive (“Quando”; “Per Clodia”) riversano il fiato (e la lettura) verso approdi (caproniani?) beneficamente coagulati e (probabilmente) avviano/ chiudono una tangibilità quotidiana e minimale offerta “a fil di sussurro”. E sempre con tenero sguardo laterale.
Beppi Surian (1995)
Cos’hai che non parli…? è una festa dell’intelligenza e dell’ironia, realizzato su più tastiere e tonalità – dalla poesia alla prosa, dall’italiano al dialetto, dalla versificazione normale alla “poesia visiva” (“Peccato”). E’ un libro che si legge tutto d’un fiato per poi ritornare a saggiare, a caso, in quel fitto microcosmo di situazioni narrative che sono quasi sempre le poesie di Crosato – e riapprodare infine all’epos casalingo di “El mondo int’el mastèl”. Che è una bellissima poesia: da gran finale!
Ma il libro ha anche il vantaggio dell’ottima presentazione critica di Piergiorgio Pozzobon e della estrosa grafica di Angelo De Martin che accompagna egregiamente il succedersi dei testi poetici.
Andrea Cason (1995)
Questa prima raccolta poetica di Francesco Crosato desta sensazioni diverse: il giocare, infatti, sul versante della memoria d’infanzia e su quello amoroso (lo scacco, rovesciato in ironia) non mette a fuoco, ad un’attenta lettura, il nucleo della poetica di Crosato, in cui affiorano qua e là anche suggestioni futuriste e tentazioni parolibere, che portano indietro la premeditata modernità della scrittura.
Come è stato ben osservato, i moduli espressivi (quello serio e quello dissacratorio) si alternano nell’intento – spesso assunto – di demistificare il passato, dai miti infantili ai labirinti d’amore: a mio avviso, la polpa più saporosa della poesia di Crosato si cela in uno stupore fantastico – specialmente davanti agli accadimenti esistenziali -, stupore che dovrebbe abbandonare quel deliberato cinismo, il quale talora asciuga una vena già autentica.
Bruno De Donà
Il Gazzettino, 7 gennaio 1996
Un autore dal piglio sicuro. Padrone di una tecnica che gli consente di maneggiare con destrezza gli strumenti offertigli dalla materia poetica. Ma senza indulgenze a quei compiacimenti oratori che troppo spesso si risolvono in vano artifizio.
E’ quanto appare dalla lettura di Cos’hai che non parli…?.
Crosato è “uomo di penna” per mestiere (insegna materie letterarie) e vocazione (è attivo fabbricatore di versi, fiabe e racconti) e su di lui si è soffermata l’attenzione di più di una commissione giudicatrice di premi letterari.
In quest’ultima raccolta, che si dirama lungo il duplice filone memoriale e amoroso, Crosato si mostra poeta disincantato e a maggior ragione convincente. Non è per via della abilità nel modulare la voce mediante un sapiente utilizzo del lessico, anche se piace lo scavo sulla parola che effettua nella costruzione dell’immagine che viene via via elaborando. A persuadere il lettore è invece la capacità di attingere alla fonte di un’ironia che riesce a determinare quello spartiacque che mette al riparo una voce poetica approdata alla maturità da possibili ripiegamenti in solipsismo.
L’ironia, o per meglio dire l’autoironia, è lo strumento che consente a Crosato di far sì che il meccanismo della memoria si metta in moto senza incepparsi in smarrimenti angosciosi o nella decantazione di mitiche età nostalgicamente ripercorse.
Al loro posto è un sottile “humor”, che si può dire parte integrante dello stile, a consentire al lettore un’efficace chiave di accesso all’“io” poetico dello scrivente. Il quale ha scelto come compagno di viaggio in questa avventura letteraria l’artista Angelo De Martin i cui disegni impreziosiscono l’opera.
Piergiorgio Pozzobon, La poesia di Francesco Crosato, intervento ad una presentazione della silloge.
Nella produzione poetica di Francesco Crosato si possono individuare sostanzialmente tre filoni: il filone memoriale (legato all’infanzia), il filone della fiaba (espressione anche della sua pluriennale attività di maestro), il filone esistenziale e amoroso (referente privilegiato è l’amore disincantato dell’età adulta).
Ritengo che i testi più convincenti siano quelli che – nei vari settori – su un’emozione o una riflessione legata al vissuto quotidiano, gettano il guizzo di uno scarto logico, una sterzata improvvisa del senso: obbligato all’arresto della sorpresa, il lettore viene indotto al riso come espressione dello smarrimento “divertito”, (nel senso di ‘distolto da’) del pensiero.
A seconda che l’autore parli dell’uomo, della “porta accanto” o – come accade più di frequente – di se stesso, in queste liriche si alternano costantemente ironia e autoironia che salvano la lirica di Francesco da un romanticismo crepuscolare, in loro assenza sempre un po’ in agguato con i rischi inevitabili della prevedibilità.
Questa vocazione all’ironia dell’autore, che ritengo la più autentica, si esprime “quasi” necessariamente – per una esigenza interna – nella forma breve dell’epigramma e del calembour. A volte piu che di vere e proprie poesie si tratta di scherzi del pensiero o della lingua in veste (Francesco direbbe in “sottoveste”) di poesia (si veda per tutte la poesia Sono misogino).
A caratterizzare, infatti, questi testi non è tanto una particolare ricerca espressiva che, se presente, tende a muoversi – a volte con esiti di fresca immediatezza – sui binari ormai tradizionali della poesia visivo-sonora come accade in alcune liriche del filone fiabesco o memoriale, quanto invece una colloquialità senza filtri che, inducendoci all’identificazione con l’autore, ci coinvolge non di rado nel gioco – liberatorio – della riflessione autocritica.
L’humour di Francesco trova espressione, comunque, anche in molte liriche di più ampio respiro, dove il pensiero-emozione non viene stillato a gocce o enucleato in pillole, ma si articola in strutture composite con maggiori ambizioni artistiche. Il bersaglio dell’ironia non è sempre, per una sorta di narcisistico vittimismo, l’“io” del poeta (del resto mai assente dallo sfondo), ma anche il mondo circostante o addirittura la poesia “alta” che viene investita da una irriverente quanto bonaria operazione di divertito sgonfiamento. È il caso di Quel verde dove il tema della natura sotto la pioggia viene felicemente attraversato, in sostituzione della divina coppia Endimione-D’Annunzio, dal duetto campagnolo nonna-nipote ritmato in controcanto dal leit-motiv “Piove, nona, piove”.
Quella di Francesco è senza dubbio una poesia che, originale e compiuta nei generi a lui piu congeniali, non indulge comunque mai – neanche nei settori in cui l’elaborazione creativa non risulta ancora del tutto convincente – al facile gioco del sentimento astratto o della sperimentazione gratuita. La linea-forza dei suoi testi più riusciti coincide con la volontà di riappropriazione catartica del proprio vissuto, evocato – con spontaneità e leggerezza – come fosse il vissuto di tutti. È in questa direzione che la dissacrazione umoristica e ironica rappresenta un’acquisizione ormai irrinunciabile per le prossime tappe della sua evoluzione poetica.
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